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Due scenari si presentano, La famiglia e la corte estense, per voce del loro provveditore Messisbugo, dettano i menù e le ricette raccolte, nel 1549, in un Libro novo. Vi si celebrano la cucina, la tavola imbandita, gli spettacoli che accompagnano i banchetti. Il libro verrà ristampato sino al 1626, ma ne resterà il ricordo di molte ricette ben oltre quella data, spogliate degli apparati festivi e dell’autorità stessa del duca e dei suoi ospiti. Messisbugo stesso ne aveva prevista la diffusione fuori del palazzo, con la riduzione delle spezie, dello zucchero in particolare, nelle famiglie meno abbienti, con varianti occasionali o economiche. E’ una cucina che non si spegne ma si trasforma lentamente senza perdere i suoi tratti distintivi. Fino a quando questa eredità, passando di mano in pentola ed in forchetta, si sia conservata, è lecito indagarlo. Questo problema  pone il primo scenario, e dobbiamo sciogliere il nodo della continuità, ritrovando frittelle e minestre in un ottocento poco sensibile alle corti rinascimentali, e molto più alla cucina francese, ed in un novecento votato alla cucina della borghesia italiana.

Secondo scenario, Messisbugo è cuoco rinascimentale e come tale fa parte di una cultura alimentare che dal XIII secolo ad oggi, presenta alcuni elementi identitari e li esibisce ininterrottamente. Non troviamo nel Libro novo tre ricette di maccheroni intesi come gnocchetti, come listerelle di sfoglia e tubi di pasta ? Nei titoli delle ricette leggiamo fracassea italiana, potaccio all’italiana, e l’aggettivo, solo oggi nazionale, ricorre per designare minestre e il rognone arrosto tritato e servito su fette “di pane quadre brustolate”. Se una cucina “italiana” era presente, accanto a piatti francesi, dobbiamo ricercarne gli elementi identitari senza trascurare la cultura ferrarese, fra Veneto, Po e Romagna, che, come vedremo è tutt’altro che oscurata dalle luci dei banchetti. Questo secondo scenario compendia tutta la nostra identità alimentare stampata e datata, cercando ricette e piatti rappresentativi, denominatore comune di prodotti, cotture, piatti riconoscibili, con nomi e titoli diversi. Cosa muta veramente da un secolo all’altro, da un ducato ad un regno unito ? Il sapore, carico qui di spezie e là di erbe o d’aceto, e l’aspetto della vivanda colorata dal calore o dallo zafferano, costruita con la sfoglia per suscitare una tacita ammirazione. La cucina italiana, senza perdere l’anno di stampa di ogni ricetta, è tale quale, e se un paragone può esser formulato, appare come i quadri di un museo che si succedono senza discontinuità se non puramente formale, con le date o il nome del pittore.

Caliamoci nella lettura del Libro novo cominciando da una ricetta dal titolo con una localizzazione, inconsueta allora, oggi banale per la sua ricorrenza : torta d’herbe alla ferrarese, o romagnola.  Doppia sfoglia sotto e sopra, biete tritate, ricotta, formaggio grasso e tomino, burro, pepe, a formare la composizione. Un ingrediente è oggi scomparso, lo zucchero spolverizzato sopra a fine cottura. Non la riconosciamo dunque come ferrarese ? Ma neanche la torta lombarda, gemella, con le due sfoglie e in mezzo bieta tritata, formaggio duro grattuggiato, burro fresco e spezie, è riconoscibile oggi. Questo significa che questi titoli delle vivande che non figurano nei menù ducali ma nel ricettario, o son passati nell’oblio o ritornano geograficamente asseverativi con altri referenti  ; la cucina resta e queste due torte, cotte oggi nel forno, possono, anzi dovrebbero esser servite e assaggiate (senza zucchero). Sfoglia, erbe e latticini erano alla portata di gente “mezzana”, e c’è da giurare che possono ancora fare bella figura, le torte ben orlate, in qualunque ricorrenza. Poche località designavano i piatti di Messisbugo, con le seguenti locuzioni : alla milanese (i ritortelli) e alla lombarda (la torta e il vitello pieno), alla napoletana e alla romanesca (i maccheroni), alla siciliana (riso o farro). Dunque il vizio c’era già di connotare un piatto con l’altra città, l’altra regione (allora stato). Se è sfumata l’assegnazione geografica, poterla datare è un passo, e ripetendo con le varianti delle fonti di calore, ineludibili oggi, un secondo passo decisivo per la conservazione del patrimonio. Torte e tortini  di ricotta si sono succeduti sino ed oltre Artusi, perdendo la doppia sfoglia e ridenominandosi – che sciccheria ! – gattò di ricotta (Cucina pratica ferrarese, 1923, la prima edizione è del 1895).  La cucina è la cultura della continuità, il valore delle preparazioni, con luogo preciso, prossimo o lontano, fluttua nel tempo e talora si mantiene inalterato. Ma non bisogna fidarsi troppo delle parole. Nel Libro novo troviamo le pizze sfogliate, e le ritroviamo in Bartolomeo Scappi (Opera, 1570, 367), ma, senza sfoglia, sono tutt’altra cosa da quelle che sono oggi in uso.

Alla ferrarese ci induce ad un confronto forzato fra il Libro novo (1549) e la Cucina pratica ferrarese (IIa edizione 1923). Quali titoli di piatti si sono conservati ? Il brodo nero diventa brodo scuro ; il riso alla turchesca è semplicemente riso al latte ; le sfoglie, tortelletti e lasagnuole han mutato appena nome ; non c’erano, tuttavia, alla corte estense, i cappellacci, noblesse oblige!. Ritrovo, trasferiti nei dolci susamelli e ofelle ; i mostaccioli e il bianco-mangiare sono finiti invece nella credenza. Colgo una ricetta ripetuta, le frittelle a vento o frittelle da vento, ed eccone la seconda versione moderna :

Mettete in una casserola una foglietta d’acqua, un poco di sale, Kg. 0,57 di burro, mezzo cucchiaio di zucchero, fate bollire, poi aggiungetevi Kg. 0345 di farina rimenando con spatola sui carboni ardenti acciò possa cuocere interamente, fate intiepidire, quindi aggiungete ad uno per volta 8 uova, e mescolate onde il tutto si unisca perfettamente. Questa pasta  la friggerete in molto strutto a  piccoli pezzetti ed a fuoco moderato, avvertendo che  è necessario di farli asciugar bene, altrimenti non conservano la loro bella forma.

 

Che cosa s’è conservato e cosa perduto ? Tutta la procedura è identica, ma invece che l’acqua Messisbugo faceva bollire del latte, poi lasciava raffreddare l’impasto, duro, e lo pestava nel mortaio (utensile in via di progressiva disparizione nel novecento) e posto in un catino vi aggiungeva l’uovo “uno per volta incorporandolo bene”. Nella fase successiva, il cuoco di corte badava alla forma delle frittelle, stampate con una boccalina, e non “a pezzetti”, “cotte adagio” e voltate “sotto sopra”. La conclusione era rinascimentale : “ e come pareranno a tuo giudicio cotte, le imbandirai, e  le sbrofferai con un poco d’acqua rosata, e  li getterai sopra libra una e mezza di zucaro grattato fra tutte, e  vogliono essere mangiate calde”.  Non bollenti e pronte per le dita del Duca.

L’ordine delle vivande, ed in particolare l’inizio e la fine è capovolto : Messisbugo provvedeva a guarnire il piattino di ogni commensale con brazzatelle, sosameli e mostazzoli di zuccaro. Al loro posto, poteva figurare un biscottello o un pane intorto al latte e zucchero. La prima vivanda posta in tavola, fra molte ? un’insalata d’erbe (e cedri) oppure di cime di radicchi, crescione “& altre mescolanze”. Il sapor dolce assisteva, integrava i primi bocconi, accompagnava una lunga serie di degustazioni di vivande nelle quali era spesso presente. La grande rivoluzione avverrà nel tardo seicento e con la cucina francese che sancirà la presenza del dolce nel solo dessert, ad esclusione, solo italiana, dell’agro dolce o dolce-forte applicato alle carni. La cuoca ferrarese novecentesca procederà dunque a rovescio giocando sul salato, sul grasso, sul brusco, sul piccante, rinviando lo zucchero alla fine del pranzo.

 

Parliamo della cuoca. Anche Messisbugo, dall’alto del suo banchetto, ne intravedeva una, una che, in case di gentiluomini “mezzani” o di gente modesta ma non priva di denari, era presente, affacendandosi, e la disdegnava, tralasciando nel suo libro di “descrivere diverse minestre d’hortami, o legumi, e in insignare di frigere una tencha, o cuocere un luzzo sulla gratella, o simili altre cose, che da qualunque vile femminuccia ottimamente si sapriano fare”. La dualità dell’ordine culinario, lo chef e la donna, esisteva già, e il primo istruito, considerato dai Signori non aveva nulla, della sua arte, apparentemente, da insegnare e spartire con le “femminucce”. Avverrà, lentamente, il contrario, e queste, già esperte nel friggere il pesce, si arrogheranno di impastare le sfoglie e di cuocere nel forno le brazzatelle,  e via via, su su, sino alle frittelle da vento. Una prima verifica può essere retrospettivamente fatta mettendo a confronto due ricette di frittelle a vento, o altro, 1549 e 1923, non solo sulla carta ma in cucina, con degustazione comparativa. Lo zucchero non era un problema già ai tempi di Messisbugo perché, discendendo la scala sociale “tutti senza zuccaro si potranno fare”. Dalla teoria alla pratica, vedremo i risultati.

 

Un secondo aspetto comune ad entrambi le cucine va osservato. Percorrendo, dall’inizio, le “compositioni delle più importanti vivande” colpisce la presenza di un primo ingrediente, la farina bianca e il fior di farina. Di essa e delle quantità consumate danno conto i Compendi (Chiappini, La corte estense alla metà del Cinquecento. I Compendi di Cristoforo di Messisbugo, Belriguardo, 1984) : 90 libbre – la libbra ferrarese era di 345 grammi – a settimana per 90 commensali. Nel cinquecento estense era il principio di una lunga serie di preparazioni della “spoglia” o sfoglia che dir si voglia, un passaggio obbligato per costruire sfogliate, tortelle, tortelletti, pastatelle, per  non citare che i titoli dei piatti di più facile comprensione. Nella sfoglia andavano, oltre farina e uova,  ingredienti diversi,  dal burro all’acqua rosa, dalle spezie al sale, e si presentava più o meno spessa, secondo le preparazioni. Anche i pastelli,  casse da riempire con carni, e da cuocere in forno, obbedivano a questo principio : prima la sfoglia. Se, nel 1923, essa è presente solo in cappellacci e cappelletti, non dobbiamo perdere di vista  che uno dei principi basilari della cucina italiana è stata, è la pasta fresca, cotta. Le forme che assumeva a corte erano più vicine a torte e pasticci e ravioli, che alle tagliatelle sciolte nel piatto, l’arte del cuoco consistendo anche e soprattutto a  dar forma intrigante, nuova o canonica, ma questo non deve far perdere di vista il nostro ingrediente identitario ieri e oggi : la farina. Dalla quale si procede, in successione e in calando verso  le torte e le minestre ; poi vengono, per ordine d’importanza, nel Libro novo, i brodi, le carni stufate ed in forno, le polpette, le gelatine e i salami, concludendo con il pesce, le frittate … per chiudere con una “vivanda alla Hebraica, di carne”.

 

Obbiettivo conseguente ristudiare le forme e ripetere, a distanza di tanto tempo, le sfogliate fatte a cialdone ed i ritortelli alla melanese. L’estetica della pasta è oggi minacciata dalla  sua produzione industriale che si prefigge di simulare quanto possibile quella fatta a mano, senza varianti ;  la ricerca deve andare in senso opposto, sperimentando nuovi modelli creati, ieri, oggi, con la medesima sfoglia. Se i “quadrelli piuttosto grandi”, ricevuto il ripieno, ripiegati a forma di triangolo, e conclusi, fanno parte di una pratica apparentemente acquisita nei tempi, ristudiarli nei ricettari recenti e passati, confrontando località diverse, Ferrara e Lugo, e poi Bologna, rappresenta un esercizio pari a quello dello storico della cucina. Ci sono poi interrogativi più spinosi. Perché e come è scomparsa la spogliata doppia, simile ad una torta a strati, uno, due, tre, sino all’ultimo, crudo, unto di burro e posto in forno ? La spogliata duplice dominava ed il pasticcio di maccheroni ne è l’erede, per quanto riguarda l’involucro, e ben lo evidenzia Giovanni Manzoni di Lugo in Così  si mangiava in Romagna (Berti, 1999,52), mentre altri, Iannotta, Iori e Galluzzi, fingono  di ignorarlo (La cucina ferrarese, 1987). La storia delle vivande riletta sul filo delle ricette presenta sorprese, e non è escluso che uno chef riprenda il respiro e l’ispirazione dall’inizio.

 

Riconsideriamo il secondo scenario, ed in particolare osserviamo la storia della cucina da un capo all’altro, da Messisbugo a Giovanni Manzoni, considerandola nel suo insieme. Il primo, o il  più illustre dei primi ad aprire questo punto di vista, è stato Piero Camporesi. Nella sua edizione de La scienza in cucina di Pellegrino Artusi (Einaudi, 1970) cita nelle note ben quattordici volte Messisbugo. Se era errato considerarlo una fonte di Artusi (che non lo aveva letto e ne ignorava il nome), è interessante l’approccio ad un unico periodo della cucina italiana, cinquecento-ottocento.

 

Che cosa annota Camporesi ? Ne diamo conto con le ricette numerate de La scienza in cucina tra parentesi le quali rappresentano l’eredità della cucina ferrarese rinascimentale :  il mestolo (Spiegazione di voci, 27) la tavola da pasta (Spiegazione di voci, spianatoia, 27), il brodo nero (sugo di carne n° 4), la zuppa acetosa (zuppa di acetosa, n°37), il cuscussù  n° 46 (che ravvisa nella vivanda alla Hebraica), il ravogliuolo (tortelli, n° 89),  la fracassea (fricassea, n°256) , la polpetta (polpette, n° 314), il caviaro (storione, n° 479) il tacchino (tacchino, n° 549), le brazzatelle (ciambelle ossia buccellato, n° 606), la tartara e la tartaretta (zuppa tartara, n°676), la torta di mangiare bianco (latteruolo, n° 694). Lo spettro è abbastanza ampio da far pensare, nei diversi comparti della cucina, ad una continuità complessiva cui Camporesi assegna un termine, una fine ne La scienza in cucina. Dopo Artusi, la cucina  comincia a farsi industriale e l’industria a surrogarla.

 

Ma ci sono cibi eterni. Basta citare la polpetta e ritrovarla, quattro-cinque secoli fa alla corte di Ferrara, declinata in quattro varianti, tutte di carne, sutte piene, in baffetta (corrette nell’indice in aperte fritte), in sapore, in tiella. E’ citata persino nei Compendi, libri di conti della tavola del duca, con la menzione: “El giorno di carne .. Polpette la sira lib 10” (107). Per nulla ovvie perché son carne trita con condimenti molto diversi e cotture, allo spiedo o in una casseruola. E’ tra le preparazioni che concedono più varianti e le polpette alla casalinga le ritrovo ne La cucina ferrarese (1987) con avanzi di carne e riso o patate lesse o pangrattato, tramonto di una cucina di corte attenta alla scelta del cossetto di vittello, taglio e cottura.

 

Che cosa radica veramente queste preparazioni con esito artusiano, a Ferrara ? La corte, va ribadito, era luogo di esperienze aperte e diverse, alla romagnola così come alla francese. Messisbugo è attento agli ingredienti e dà prova, come ogni bravo dispensiere, di competenza e fa i conti delle spezierie venute da vicino, il miele, e da lontano, cannella e zucchero. Ogni suo piatto è dunque di territorio, o approdato come i maccheroni romaneschi da un altro ed ereditati da Maestro Martino, riproposti ed un giorno  destinati ad incontrare un suo pastello sfogliato ed a concludere il matrimonio del pasticcio di maccheroni (presente anche altrove, a Napoli, col titolo timpano di maccheroni e diversa storia). Merito di Messisbugo, la doppia compilazione di menù e ricette, della lista delle masseritie da cucina, dei prodotti, indigeni, come il caviaro fresco, & salato, oppure  importati, i limoni. Dal pan da tavola all’olio “per insalate, e cucina, e lampade” nulla è certificato quanto alla provenienza, perché significava squadernare ai lettori libri di conti, ma a distanza di tempo tutta la sua credenza dà nome e credibilità ad una cultura ferrarese multifocale. Così lo leggeva Camporesi, senza avventurarsi in una descrizione di tale territorio nel tempo, anche se le origini romagnole di Artusi gli sembravano richiamare una terra che nella città di Ferrara aveva avuto la sua corte più illustre. E’ quanto suggeriva la ricetta della torta d’herbe alla ferrarese, o romagnola, mettendo per iscritto un connubio di biete, sfoglie, latticini e un saper cucinare che servissse da firma e certificazione delle origini territoriali del ricettario estense.

 

Veniamo ora ad un'altra indagine sul ricettario datato 1549. Il Libro Novo comporta una dedica da letterato, dei conviti in italiano cortese con i titoli di piatti dell’uso, delle ricette nella lingua degli scalchi e dei cuochi e un indice che prende alcune libertà con il testo. La nostra indagine riguarda ora la lingua in cucina, e sarà dispiegata utilizzando da un lato il Libro novo e dall’altro strumenti apparentemente anomali come il Vocabolario romagnolo-italiano del Mattioli (Imola, 1879).

 

Questa analisi bifocale di un testo cinquecentesco e della sua affinità con i dialetti di territorio ottocenteschi, misurata dunque a grande distanza, è apparentemente anomala e merita una giustificazione. I ricettari ferraresi già citati, la Cucina pratica ferrarese (1923) e la Cucina ferrarese (1987) si esprimono nell’italiano voluto da Artusi, corretto e ricorretto dagli editori. Paradossalmente, tracce di dialettismi le troviamo nel modello rinascimentale che cita la Cassaria di Ludovico Ariosto, e, in un momento apicale della cultura letteraria italiana, ne mostra l’altra faccia, domestica e servile  della bassa corte. Non c’è che il dialetto per certificare la localizzazione di prodotti e di piatti e ritrovarlo sotto un italiano di facciata, è di estremo interesse. Cominciamo con la sfoglia, “spoglia”, spoja, e la “sfogliata”, sfojeda, le “povine”, in romagnolo puvèna, ricòta, continuando con le “nizzole”, nizola è la nocciola, e con il “pevere”, pever. In “una tortella brusca de ficadetti” c’è sì il diminutivo italiano di torta, ma anche l’aggettivo brusca, brosc brusco di sapore che tira all’aspro (Mattioli, 1879) e soprattutto i figadet, fegatello, pezzetto di fegato per lo più di porco (Mattioli, 1879). Un altro esempio : la “sfogliata, sgrostata, de pizzoni” dove ritrovo “grosté crostata sf. specie di torta” e “sgrosté, scrostare va levare la crosta”  ed ovviamente il pizòn, piccione (Mattioli 1879). L’indagine rivela sotto l’italiano di facciata,  che retrodatato ci appare classico mentre è ovviamente spurio, una lingua parlata che modifica l’ortografia e, nella fase di scrittura, la raddrizza, riaggiustando laddove è possibile una desinenza, qualche vocale. Una analisi minuziosa resta da fare, a partire dalla quale qualificare una cultura e una pratica culinaria  restituendone il dettato a Ferrara e alla Romagna. Il nostro uso del Mattioli, coevo delle ricette de La scienza in cucina non è una provocazione perché rinvia al dialet e lo traduce nel  toscano di Artusi, cittadino di Firenze dal 1851 al 1911, il quale guidava la sua scrittura con un lessico che assorbiva, adattava, spegneva i dialetti italiani e, laddove era possibile, il francese dominante. Messisbugo, nel ricettario, si esprimeva così, scriveva un italiano a tratti dialettale, e forse, rivolgendo la parola ai duchi, dopo aver ascoltato La Cassaria, fingeva di ristudiare il proprio accento e le proprie parole.

 

Considerazioni in appendice

La lista delle ricette di Messisbugo che ritroviamo nell’otto-novecento, sopra citata, è incompleta ma è un primo passo. I piatti della Cucina pratica ferrarese devono servire ad una verifica comparata con quelli cinquecenteschi. Bisogna fare, ripetere in cucina, ripetere da cuochi e cuoche, le ricette del Libro novo e quelle che ne sono le eredi, comparandole, valutandole.

Nell’ambito di un assaggio comparato delle ricette di Messisbugo anche la versione con o senza zucchero può prestarsi al raffronto.

Tra passato e presente, le sue e le altre ricette, con tutte le loro varianti, sono la prova che la storia della cucina, a differenza di altre, si ripete ed evolve, senza dimenticare le proprie origini.

Una corte, il dialetto dei cuochi, cibi ripetuti per secoli senza il rischio di venir spazzati dalla modernità sono la tela di sfondo ad una cucina che si continua a rifare-ricreare, in una terra dai confini definiti; una cucina oggi nel mondo parte importante della cultura italiana.